I taxi delle grandi città che non conosco mi hanno sempre affascinato. Ho sempre pensato che fossero una delle chiavi di lettura migliori per capirle. I tassisti, a volte taciturni, altre socievoli o sfacciati, raccolgono la memoria dei centri urbani in migliaia di piccoli frammenti, lunghi quanto una corsa. Questi poi diventano storie, racconti e invenzioni a beneficio di altri clienti, durante altre corse. Animano altri incontri, alimentano altre storie.
In certi casi però sono loro stessi il racconto, e la chiave di lettura di un luogo te la offrono anche senza volerlo. A noi Guayaquil ce la racconta Salvador, il tassista che nel pomeriggio ci porta al barrio Las Peñas. La cosa di cui mi accorgo quasi subito e che più mi colpisce di Salvador è la svastica tatuata sulla sua mano sinistra. Mi sembra che ne abbia pudore: sul volante tiene sempre la mano destra, la sinistra è nascosta. Ma forse è solo la mia immaginazione. Gli chiediamo di aspettarci ai piedi della collina mentre noi visitiamo il quartiere, ma una volta arrivati lì decide di salire con noi: sarà la nostra guida.
A dispetto dell’impressione che avevamo avuto ieri guardandolo da sotto, il quartiere è molto curato e non sembra pericoloso. Anche qui, come al Malecón, c’è stata un’azzeccata opera di regeneratión urbana che ha reso la scalinata, spina dorsale del barrio, un susseguirsi di bar, ristoranti e negozi. Piccole terrazze, minuscole piazzette e orticelli privati impreziosicono i 444 gradini della salita che porta al mirador, dal quale si domina tutta la città e la sterminata foce del fiume Guayas. Lungo la scalinata scopro che Salvador è originario di Riobamba, la capitale della provincia Ecuadoriana di Chimborazo, duecento chilometri a nordest di Guayaquil. Si era trasferito qui non ancora ventenne per diventare un ingegnere chimico ma poi le cose sono andate diversamente. Per arrivare alla laurea gli manca soltanto la “defensa della tesis” ma per vivere fa il tassista. Quando gli dico che potrebbe cambiare vita lui sorride, ma negli occhi ha il rimpianto di non essere arrivato alla fine degli studi e la consapevolezza che forse non ci riuscirà mai. É sveglio, Salvador. Sembra felice di svelare a noi occidentali questo angolo suggestivo della sua città d’adozione. Passiamo insieme più di un’ora e mentre mi descrive le varie zone della città continuo a chiedermi il perché di quella svastica. Tra di noi fanno presto a decollare ardite congetture, ipotesi strampalate e sospetti.
Trovo il coraggio di chiedergli il perché della svastica soltanto una volta tornati in albergo, dopo avere pagato la corsa. «Questo tatuaggio l’ho fatto quando avevo 9 anni – mi dice visibilmente imbarazzato e sorpreso dalla domanda – mi piaceva soltanto graficamente, ma non ne conoscevo il significato». Dopo i saluti Salvador va via sorridente, mentre a noi quasi dispiace che dietro quel tatuaggio non ci sia chissà quale storia avvincente.
Si è fatta sera. La mia giornata finisce a guardare fuori dalla finestra, mentre Sandro e Ignazio sistemano il Massif e l’Eurocargo nel parcheggio dell’albergo. Domani partiamo. E per un bel po’ faremo a meno dei taxi.
Daniele Tagliavia
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