Il Cerro Rico, la montagna che ospita le miniere di Potosi, si presenta alla vista con un alternarsi di pietra rossastra e grigia. Domina la città, è imponente, ma al tempo stesso lascia intravedere la sua fragilità. L’alternarsi di colori, in gran parte determinato dai molti riporti di terreno, descrive all’esterno il lavorio che suo malgrado ospita all’interno, la violenza che subisce da secoli e che continua a subire. Già da lontano si scorgono i vari ingressi alla miniera: tutti cunicoli alti non più di un metro e mezzo che un po’ mi inquietano.
Il nostro Virgilio si chiama Enrique; sarà lui ad accompagnarci nei “gironi” della miniera d’argento di Potosi. Enrique ha trent’anni e anche lui, quando era adolescente, ha fatto il minatore qui. Avrebbe continuato ma il servizio militare l’ha costretto a smettere e da allora non ha più ripreso. «Tutte le persone che conoscevo – mi spiega – lavoravano in miniera, di conseguenza per me è stato naturale iniziare a lavorare qui. Per noi uomini di questa città è quasi una questione di onore. Una sfida».
Dopo avere indossato tuta, stivali ed elmetto ci addentriamo in uno dei cunicoli più superficiali della miniera. I primi passi dentro il pasillo ci servono per abituarci al cambio di luce e di temperatura. Seguiamo uno dei binari su cui viaggiano i carrelli con il materiale estratto, i piedi affondano in una fanghiglia grigia mista al rossastro e a farci luce ci sono soltanto le lampade montate sui caschetti.
Mentre provo a immaginare cosa significhi passare la propria vita qui, Enrique ci mostra degli addobbi, i segni della piccola cerimonia che ieri, festività nazionale qui in Bolivia, i minatori hanno organizzato nel buio dei tunnel. Appena più avanti incontriamo un piccolo museo della miniera.
Si percepisce chiaramente come questo, per loro, non sia soltanto un posto di lavoro. Aleggia un misto di religiosità e di superstizione. «Siediti - mi dice Enrique quando arriviamo davanti ad una statua - Questo è Tìo Jorge, il dio protettore di questa miniera». Enrique d’improvviso sembra assente, prende una boccetta con dell’alcol e ripete il rito che ogni venerdì i minatori consumano davanti al loro Dio. Recita una formula che chiede al Tio Jorge una vista acuta per non farsi sfuggire le pietre più ricche di minerali e chiede che la montagna sia fertile. «Secondo la tradizione – mi spiega – Tio, il dio dei minatori, è il marito della Pachamama, e ogni venerdì si brinda in suo onore per assicurarsi protezione e riuscita nel lavoro».
Ci avviamo verso l’uscita a passi rapidi. Siamo qui dentro da più di un’ora e iniziamo ad aver voglia di rivedere la luce. Gli ultimi passi prima dell’uscita hanno il sapore di una piccola liberazione. D’improvviso si ricomincia a sentire il cambio di temperatura, di odore, e di luce. Quando usciamo la grigia mattina di Potosi sembra, per qualche minuto, un abbagliante sole di mezzogiorno.
il video di oggi del nostro Luca
le foto di Ugo
Daniele Tagliavia
Nessun commento:
Posta un commento