Partesa On The Road 20°

Partesa On The Road 20
Partesa On The Road 20° è una consegna estrema: il viaggio con cui Partesa festeggia 20 anni di attività, all'insegna della sua mission: distribuire ovunque il meglio. Un equipaggio di 6 persone, a bordo di un Eurocargo e di un Massif Iveco, è partito da Milano il 18 gennaio. Attraversando l'Ecuador, il Perù, la Bolivia e l'Argentina raggiungerà Ushuaia il 25 marzo per effettuare La Grande Consegna di Birra Moretti. Sarà un viaggio indimenticabile. Seguitelo giorno dopo giorno, su queste pagine.

27 febbraio 2011

Potosi-La Quiaca-S.Antonio: il fango, la frontiera, il lago salato


Ieri la giornata inizia molto presto.Tra Potosi e La Quiaca, prima tappa Argentina del nostro viaggio, ci sono 270 chilometri di strada sterrata. Fango, a causa della pioggia battente di questi giorni. Le continue deviazioni, che rendono l’incedere ancora più difficile, e le miriadi di piccoli cantieri, unici segni della presenza umana da queste parti, ci suggeriscono che stiamo percorrendo una pista su cui breve nascerà una strada vera.
Fortunatamente dopo qualche ora la pioggia ci lascia in pace, e noi ne approfittiamo per fermarci nella pace di un letto di un fiume in secca. Ma mentre ci godiamo la vicinanza alla natura che la mancanza dell’asfalto ci regala, lei ci volta le spalle: il cielo si rabbuia e ricomincia a piovere. Gli ultimi chilometri di fango sono interminabili, la frontiera Bolivia-Argentina sembra non arrivare mai. Per fortuna nel pomeriggio le nuvole finalmente si aprono, lo sterrato si fa asciutto e ci troviamo in una piana che ci proietta in un paesaggio da bassa California: cactus, piccoli canyon rossastri e collinette con vegetazione bassa.
L’attraversamento della frontiera è in un altro piccolo calvario: centinaia di persone in coda al controllo passaporti e decine di auto al controllo doganale. Nonostante la stanchezza interpretiamo l’attesa come un buon segno, e decidiamo di condividere la fiducia che tutte queste persone sembrano riporre nell’Argentina.

Stamattina, a La Quiaca, c’è di nuovo la pioggia a darci la sveglia. Alcuni nostri contatti argentini ci consigliano di evitare la Ruta 40, almeno fino a S. Antonio de Los Cobres. Ci sono dei fiumi sull’orlo dello straripamento e potrebbe essere rischioso. Così decidiamo di prendere la Ruta 9, più nuova e sicura e soprattutto completamente asfaltata. La scelta si rivela azzeccata, anche dal punto di vista del paesaggio: attraversiamo degli incredibili canyon con pareti color ocra misto a rosso, alcuni li vediamo in lontananza, altri quasi sfiorano la strada. Delle cattedrali di pietra, come le battezza felicemente Ugo. Allontanandoci dal confine Boliviano si percepisce chiaramente la differenza tra l’Argentina e il resto del continente. La strada, le case, i volti, le auto: tutto sembra raccontarci di un paese profondamente diverso, molto più occidentale di Ecuador, Perù e Bolivia. Complice il paesaggio, la sensazione a volte è di percorrere una delle interminabili Route che attraversano il Nord America



La Ruta 9 finisce in corrispondenza di un salar, un lago salato disteso su una piana enorme che trasforma il piccolo raggio di sole che timido passa tra le nuvole in un vero lampo di luce. Le nuvole sembrano riflettersi nel lago, il lago nelle nuvole.
Lo costeggiamo per gli ultimi chilometri che ci portano a S. Antonio de Los Cobres, un “pueblito” di poche anime che appare all’orizzonte poco a poco, quasi come emergesse dalla terra, ormai bagnata da un sole caldo e piacevolissimo.

le foto e il video della giornata




Daniele Tagliavia







25 febbraio 2011

Dentro il Cerro Rico. La miniera d'argento di Potosi


Il Cerro Rico, la montagna che ospita le miniere di Potosi, si presenta alla vista con un alternarsi di pietra rossastra e grigia. Domina la città, è imponente, ma al tempo stesso lascia intravedere la sua fragilità. L’alternarsi di colori, in gran parte determinato dai molti riporti di terreno, descrive all’esterno il lavorio che suo malgrado ospita all’interno, la violenza che subisce da secoli e che continua a subire. Già da lontano si scorgono i vari ingressi alla miniera: tutti cunicoli alti non più di un metro e mezzo che un po’ mi inquietano.

Il nostro Virgilio si chiama Enrique; sarà lui ad accompagnarci nei “gironi” della miniera d’argento di Potosi. Enrique ha trent’anni e anche lui, quando era adolescente, ha fatto il minatore qui. Avrebbe continuato ma il servizio militare l’ha costretto a smettere e da allora non ha più ripreso. «Tutte le persone che conoscevo – mi spiega – lavoravano in miniera, di conseguenza per me è stato naturale iniziare a lavorare qui. Per noi uomini di questa città è quasi una questione di onore. Una sfida».
Dopo avere indossato tuta, stivali ed elmetto ci addentriamo in uno dei cunicoli più superficiali della miniera. I primi passi dentro il pasillo ci servono per abituarci al cambio di luce e di temperatura. Seguiamo uno dei binari su cui viaggiano i carrelli con il materiale estratto, i piedi affondano in una fanghiglia grigia mista al rossastro e a farci luce ci sono soltanto le lampade montate sui caschetti.



Mentre provo a immaginare cosa significhi passare la propria vita qui, Enrique ci mostra degli addobbi, i segni della piccola cerimonia che ieri, festività nazionale qui in Bolivia, i minatori hanno organizzato nel buio dei tunnel. Appena più avanti incontriamo un piccolo museo della miniera.
Si percepisce chiaramente come questo, per loro, non sia soltanto un posto di lavoro. Aleggia un misto di religiosità e di superstizione. «Siediti - mi dice Enrique quando arriviamo davanti ad una statua - Questo è Tìo Jorge, il dio protettore di questa miniera». Enrique d’improvviso sembra assente, prende una boccetta con dell’alcol e ripete il rito che ogni venerdì i minatori consumano davanti al loro Dio. Recita una formula che chiede al Tio Jorge una vista acuta per non farsi sfuggire le pietre più ricche di minerali e chiede che la montagna sia fertile. «Secondo la tradizione – mi spiega – Tio, il dio dei minatori, è il marito della Pachamama, e ogni venerdì si brinda in suo onore per assicurarsi protezione e riuscita nel lavoro».
Ci avviamo verso l’uscita a passi rapidi. Siamo qui dentro da più di un’ora e iniziamo ad aver voglia di rivedere la luce. Gli ultimi passi prima dell’uscita hanno il sapore di una piccola liberazione. D’improvviso si ricomincia a sentire il cambio di temperatura, di odore, e di luce. Quando usciamo la grigia mattina di Potosi sembra, per qualche minuto, un abbagliante sole di mezzogiorno.
il video di oggi del nostro Luca
le foto di Ugo



Daniele Tagliavia





La Paz-Potosi: 550 chilometri e (quasi) non sentirli


Tutte le strade di La Paz, quando partiamo dal nostro albergo, sono intasate da collectivos, autobus e auto. Per andare verso El Alto e imboccare la carretera verso Potosi impieghiamo circa un’ora, e il traffico mal si concilia con il temperamento del nostro capospedizione Sandro, evidentemente più a suo agio sulle piste desertiche che tanto ama, piuttosto che nel traffico di una capitale sudamericana.
Ancora non lo sappiamo, ma l’uscita da La Paz è soltanto l’antipasto della fatica che ci aspetta nelle ore seguenti. Appena fuori dalla città ritorniamo a godere dello scenario degli ultimi giorni: Puna andina a perdita d’occhio, bellissima, abitata soltanto da Lama, dai loro pastori e da qualche casetta di pietra con il tetto in paglia.
In alcune spianate i lama hanno talmente tanto spazio a disposizione che non si riesce a coglierli tutti in un unica occhiata. La loro calma, la loro pigrizia, e la vastità in cui possono muoversi, danno un senso di pace, fanno quasi invidia.



A metà della tappa ci fermiamo a Oruro, una piccola cittadina che in questo periodo è in fermento in vista dell’appuntamento del carnevale, previsto per la prima settimana di marzo. La attraversiamo all’ora di pranzo, quando le sue strade malmesse e spoglie sono popolate (e colorate) da centinaia di studenti all’uscita delle scuole. Hanno tutti una divisa: i più piccoli vestono con dei grembiuli informi, i più grandi con divise ordinate e ben rifinite. Al colore dei ragazzi si oppone il grigiore dei palazzi: quasi tutti senza intonaco e spesso incompleti.

Lasciamo la città e riprendiamo il cammino verso Potosi. Niente più pianure e niente più strade dritte. Durante il pomeriggio la strada, generosa al mattino, ci volta le spalle: i 200 chilometri che ci dividono da Potosi sono un susseguirsi infinto di tornanti che trasforma la tappa di oggi nella più lunga e faticosa del nostro viaggio, almeno sino ad ora.
Arrivati quasi a destinazione, dopo 12 ore di viaggio, decidiamo di premiarci e di rendere omaggio alla meraviglia che si apre alla nostra destra. Mentre mi godo lo spettacolo penso che qualcuno, mille anni fa, ha goduto dello stesso panorma, rimasto identico fino a oggi.



qui le foto di Ugo
qui il video di Luca


Daniele Tagliavia





23 febbraio 2011

La Paz: il mercato delle streghe.


A La Paz non c’è una strada che sia in piano: soltanto saliscendi che mettono a dura prova chi, come noi, si sta abituando soltanto adesso all’altitudine. In più il caos e lo smog rendono l’incedere per le vie della città particolarmente faticoso.
Mentre Luca e Ugo vanno al mercato della coca nel tentativo di raccontarlo con foto e video io, in compagnia di Sandro, Ignazio, ed Ermes vado verso il mercato delle streghe, meta irrinunciabile per chi visita la capitale Boliviana.

Chela de Cortés è una bruja (strega) buona ed è la prima che s’incontra lungo la calle de las brujas, l’arteria principale attorno alla quale si sviluppa il mercato.
Già di buon mattino Chela ha aperto il suo banchetto e, come Sandro e Ignazio mi avevano anticipato, espone dei feti di Lama essiccati che vende come portafortuna. Lei sembra stupita dalla mia espressione, quando la vedo maneggiare con naturalezza questi singolari portafortuna. Io vinco un po’ di disgusto e le chiedo qualche dettaglio. «Quelli che vedi – mi spiega - sono frutto di aborti spontanei che i contadini mettono a essiccare al sole per circa un anno, poi noi li compriamo». Il nostro piccolo dialogo è interrotto da una signora che vuole comprarne uno. «Oltre a questi feti – continua Chela – io preparo anche delle composizioni fatte da dolci e da pietre portafortuna. C’è una composizione per ogni richiesta: amore, salute, ricchezza, fortuna sul lavoro. Si sistemano in casa e si chiede alla Pachamama, la madre terra, un aiuto».



Già, la Pachamama…l’incontro con Chela mi ricorda che, qui in Sudamerica, alla cultura dominante di stampo cattolico sembrano essere come sfuggite delle istanze animiste risalenti alla civiltà Inca e alle altre civiltà andine precolombiane. Un misto tra monoteismo e animismo che ancora sopravvive e che da queste parti è vissuto in maniera del tutto naturale. Quando chiedo a Chela se è cattolica mi risponde quasi stizzita: «Certo che sono cattolica, ma Gesù sta in cielo e ci protegge, la Pachamama sta in terra e ci dà tutto quello che ci serve per vivere».



Daniele Tagliavia






Puno-La Paz. Entriamo in Bolivia


Appena partiamo da Puno diretti a La Paz, mentre il lago Titicaca alla nostra sinistra ci tiene compagnia durante le prime ore di viaggio, ripenso ai dieci giorni che abbiamo passato in Perù e a quello che questo soggiorno ci ha lasciato.
Penso all’emozione del Machu Picchu, impossibile da descrivere. Ai bambini della Sagrada Familia, che hanno riempito di umanità il nostro incedere veloce e a volte frenetico dal nord al sud del paese. E poi ancora alle linee di Nazca, i grattacieli del centro di Lima e i portici di Cusco. Il deserto del Sechura e la costa pacifica. Dieci giorni intensi alla scoperta di un paese splendido, che ci hanno condotto verso i prossimi capitoli del nostro viaggio. La Bolivia prima, l’Argentina poi.

Quando al confine manca ormai poco, ci fermiamo sul ciglio della strada per rifornire l’Eurocargo. Scendo dal fuoristrada e mi accorgo di essere ospite di uno scenario surreale. Per qualche minuto ho la sensazione di rallentare, di abbandonare i ritmi serrati del nostro viaggiare per sincronizzarmi con quelli di questa fresca piana andina, delimitata da una corona di vette innevate. A pochi metri da noi un binario piccolo e solitario, chissà da dove viene, chissà dove arriva, chissà se è abbandonato o se magari prima o poi, da lì, passerà un treno. Poco lontano, sulla strada, una donna sola con uno zainetto sulle spalle mi indica che lì probabilmente c’è una fermata dell’autobus. E mentre scorgo l’immancabile piccola baracca apparentemente abbandonata, osservo due bambini che, armati di bastoni di legno, si allontanano in compagnia di una mandria di non più di quattro mucche, che quasi sfiorano gli sportelli del Massif. Incuranti di noi e del nostro tempo occidentale.



In pochi metri intorno a me il tempo andino, placido e quasi pigro, mi ha mostrato il suo volto più bello. La mia “escursione” però finisce presto. La sosta è finita, e noi abbiamo un confine da attraversare e ancora molti chilometri da percorrere prima di arrivare a destinazione.

Superiamo la frontiera e arriviamo a La Paz nel pomeriggio. L’ingresso in città è molto faticoso. Ci accoglie un caos e una povertà sorprendenti. Nella periferia è tutto percorso sterrato, e sembra che le persone siano tutte riversate sulle strade, che dentro le case non ci sia nessuno. Che il vivere insieme di questa periferia della capitale stia tutto in quei due metri, tra il traffico delle auto e i marciapiedi. Sulla strada le auto si contendono confusamente lo spazio lasciato libero dai collectivos, taxi per 8-10 persone ammassati l’uno sull’altro per le strade e i ponti di La Paz. Un po’ di respiro lo troviamo arrivando dalla zona di El Alto, da cui possiamo goderci la vista sulla città. Le vette andine innevate lontanissime sullo sfondo e, sotto di noi, un tappeto di case rossastre, come i mattoni con cui sono costruite.
Per oggi ci accontentiamo della vista dall’alto e di qualche foto panoramica. Domani avremo il tempo per osservarla più da vicino.

qui le foto di Ugo
qui il video di Luca



Daniele Tagliavia




21 febbraio 2011

Puno, sulle rive del lago Titicaca. Immagini dalla città


Il meteo cambia i nostri programmi per la giornata di oggi e la sottile pioggia ci consiglia di non imbarcarci verso le isole degli Uros sul lago Titicaca. Le chiamano “Islas flotantes” perché altro non sono che un tappeto di “totoras”, delle canne lacustri che vengono legate insieme a formare dei piccoli isolotti. Il Titicaca va preso sul serio e se il meteo non è favorevole è meglio andare a fare un giro nel centro della città. La prima tappa la facciamo al mercato. Ugo vuole fare qualche ritratto della coloratissima e sempre affascinante umanità peruviana.
Lui riesce sempre ad avvicinare le persone con discrezione, senza infastidirle. Il piccolo monitor della sua macchina fotografica digitale è un’arma in più, soprattutto con i bambini. Appena dopo lo scatto può regalargli l’anteprima della foto, e renderli felici. Il nostro protagonista di oggi è lui, John Jefferson di 5 anni, figlio di una delle tante venditrici di frutta del mercato, che come una vera star si concede a Ugo senza alcuna ritrosia.


Il mercato “vive” dentro una costruzione a due piani coperta da una tettoia spiovente. Al primo piano venditori di frutta e macellai, al secondo botteghe di tessuti, abiti e souvenir di ogni genere. A incuriosirmi è un piccolo chioschetto in cui un omino curvo lavora silenziosamente, coperto da una pila di cappelli. Non è un venditore, come mi era sembrato. Lui i cappelli non li vende ma li ripara. Gli chiedo il costo delle riparazioni: dai 2 ai 10 dollari americani, ma mi sembra di infastidirlo e così decido di proseguire.
Lasciamo il mercato e decidiamo di andare nella piazza principale di Puno: Plaza de Armas. Sulla strada però, notiamo una parete tappezzata di cartelli colorati e una folla ordinata a osservarla e, sulle prime, non capiamo. Jenero, un signore distinto di mezza età mi avvicina incuriosito dalle nostre divise e mi chiede da dove veniamo e cosa facciamo lì.
Mi spiega che quelli che riempiono il muro sono annunci, e che le persone che vedo sono in cerca di lavoro. Lui ha 52 anni e nella vita fa l’assicuratore, anzi faceva. Sì perché un rigagnolo della crisi globale di questi anni è arrivato anche qui a Puno, al confine tra Perù e Bolivia, a 3800 metri sul livello del mare. «Nessuno – mi dice con un misto di rabbia e rassegnazione – vuole più assumere un uomo della mia età. Così ogni giorno vengo qui in cerca di qualche annuncio che possa interessarmi». Come lui ce ne sono tantissimi. Sono tutti schierati molto ordinatamente, a tre o quattro metri di distanza dal muro degli annunci. Un ordine e un silenzio assolutamente dissonanti con il caos che regna tutt’intorno. Sul muro annunci di tutti i tipi: offerte e richieste di lavoro ma anche annunci immobiliari e di vendita di oggetti. Saluto Jenero facendogli il mio in bocca al lupo e proseguo nel mio andare da fla
nuer in giro per Puno.




Decidiamo di prendere un taxi e andare al mirador, in cima a una delle colline che domina la città. Da qui si vede tutta Puno. Una città di certo non bella, confusa e poco curata, soprattutto ai nostri occhi ancora pieni della bellezza di Cusco. L’unico vero vanto di questa cittadina di confine è il presidio di una delle rive del lago Titicaca. Il vero spettacolo che da qui su ci possiamo godere.
Domani si riparte. Lasceremo il Perù ed entreremo in Bolivia, diretti a La Paz.

qui il video della giornata del nostro Luca



Daniele Tagliavia




Cusco-Puno. Camera con vista sul lago Titicaca


Mentre viaggiamo da Cusco diretti a Puno a me capita di pensare ancora a ieri. Sonnecchio sul sedile posteriore del Massif, con la testa sono ancora sul Machu Picchu.
Il mio vagare inizia quando mi passa davanti l’ennesimo piccolo cimitero ai lati della strada, quasi sempre in prossimità di curve, in punti vicini a scarpate o burroni. Per associazione mi viene in mente il misticismo e la spiritualità che il Machu Picchu conserva. La città è costruita attorno al tempio del sole, sito a metà tra l’osservazione astronomica e la religiosità animista, e in ogni angolo si trovano piccoli templi. A differenza di altri luoghi di culto in altri siti archeologici in giro per il mondo, qui la religiosità ha il sapore vivo dell’incenso che ancora arde in uno degli altari, lasciato lì da qualcuno. E ha il volto assorto di alcuni visitatori che si isolano, in cerca di raccoglimento, sui vari terrazzamenti intorno alla cittadella.
Anche lo scenario naturale sembra conservare qualcosa dell’animismo Inca. Il Huaina Picchu su in alto, il fiume Urubamba, lontanissimo ma ben visibile, e le montagne ripidissime intorno sono uno spettacolo talmente enorme da spiegare l’adorazione degli Inca per la Pachamama, la madre terra.



Mentre io mi assento con la testa la nostra piccola carovana va avanti. Dopo i giorni di acclimatamento a Cusco, oggi l’altimetro sale ancora e, appena prima del pranzo attraversiamo il passo raya, a 4750 metri sul livello del mare.
Il nostro passaggio è battezzato da un violento temporale ma mentre ci avviciniamo alla nostra meta di oggi il Perù organizza per noi un altro cambio di palco, un altro spettacolo. Attraversiamo delle spianate enormi colorate dal verde dell’erba e dal giallo dei fiori di colza, sovrastate da un cielo finemente azzurro, quando dalla strada ci si apre davanti la vista del Lago Titicaca attorno al quale si affolano i palazzi di Puno.

Domani visiteremo le sue isole, ma intanto, mentre scrivo, posso ammirarlo dalla finestra dell’albergo.

qui il video di Luca
qui le foto di Ugo


Daniele Tagliavia




20 febbraio 2011

All'alba sul Machu Picchu.


La nostra avventura verso il Machu Picchu inizia già ieri sera. Alle 17 Luis, la nostra guida, ci viene a prendere in albergo e da Cusco partiamo in auto diretti alla stazione di Ollantaytambo, dove l'aria inizia a riempirsi di aspettative e curiosità. È ormai buio, e centinaia di turisti da tutto il mondo aspettano come noi di salire sull'Inca Rail, un piccolo trenino blu che sembra venire da qualche posto dell'immaginario a metà strada tra l'Orient express e i treni a vapore che solcavano il far west americano. Il tetto delle carrozze ha delle ampie vetrate che regalano uno spettacolo unico: siamo dentro la gola dell’Urubamba, la ferrovia corre tra il fiume, che scorre violentissimo e rumoroso, e la parete rocciosa, ricoperta dalla vegetazione amazzonica. Quando arriviamo ad Aguas Calientes è già sera e a me sembra che la difficoltà nel raggiungerlo, conferiscano al Machu Picchu fascino, che siano quasi un attributo di grandezza. Il viaggio in auto, poi il treno, il pernottamento e poi ancora la ripida ascesa in autobus sembrano quasi delle prove, e ci danno la misura di quanto la collina che ospita i resti della cittadina Inca sia sperduta tra la fine delle Ande e l'inizio della foresta amazzonica.
Stamattina alle 6 ci diamo appuntamento con Luis per prendere l'autobus che ci porterà sino alle rovine. Vogliamo arrivare presto per evitare il momento di massimo afflusso turistico e per goderci l'alba. Arrivati alle porte del parco archeologico, decidiamo di andare subito nella parte alta, la zona panoramica. Ugo e Luca sono pronti per le foto e le riprese, ma per lo spettacolo dobbiamo ancora aspettare. La nebbia, un velo sottile steso sulla città antica ce lo nega, ma ancora per poco.
Via il velo.
Machu Picchu è lì. Sotto di noi.



Mentre ci spostiamo la foschia si muove in banchi piccoli e veloci e lo spettacolo di luci cambia sempre, è sempre diverso. La città, costruita quasi interamente con il granito della montagna, dà insieme una sensazione di precarietà, costretta com'è tra due pareti ripidissime, e di stabilità, costruita com'è con la stessa pietra della montagna, di cui sembra un’estensione inamovibile. Intanto il sole si alza, arrivano i turisti, e noi ci dedichiamo al giro del parco archeologico. Il Machu Picchu è una città costruita nella seconda metà del quindicesimo secolo ed è stata risparmiata dagli spagnoli, che non la trovarono mai. Fu costruita durante il 15esimo per farne un avamposto di osservazione astronomica e un luogo di culto, ma già nel 1520 venne abbandonata per ragioni ancora misteriose.
Mentre Luis completa il giro delle rovine decido di tornare su uno dei punti che offrono la vista migliore sulla città, per godermi lo spettacolo un'ultima volta.
Mai visto niente di simile.
Impossibile trovare, d'ora in poi, qualcosa di simile.


Daniele Tagliavia




18 febbraio 2011

In giro per le strade di Cusco. Antica capitale dell'impero Inca

La prima notte a più di tremila metri sul livello del mare fila via liscia senza troppi problemi. Si fa fatica a fare un passo ma ci faremo l’abitudine. Ovviamente il problema l’abbiamo solo noi “gringos”. I peruviani sono perfettamente a proprio agio e stamattina siamo rimasti tutti a guardare ammirati un peruviano che faceva jogging sullo splendido piazzale di Plaza de armas. E mentre lui su questa splendida piazza correva a noi non restava altro che riposarci sul una panchina e ammirarla. La cattedrale, imponente su uno dei lati della piazza è bellissima: colonne enormi, tetto altissimo e altari in oro. Il godimento degli occhi lascia però quasi subito spazio alla consapevolezza che questa cattedrale altro non è che uno dei più arroganti lasciti dell’invasione spagnola in sudamerica. E questa prepotenza la significa in primo luogo il posto su cui la chiesa è costruita, sede, prima dell’arrivo degli spagnoli, del palazzo Inca dell’imperatore Viracocha. Anche in giro per la città, lungo i viali lastricati del centro, c'è qualcosa che mi disturba: il turismo, la presenza di negozi con marchi occidentali, i molti alberghi e persino un fast food mi lasciano la sensazione che il colonialismo non sia mai finito. E che la vera anima della città sia morta con la fuga dell’ultimo imperatore Manco Inca Yupanqui, durante l'assedio del conquistador Francisco Pizarro. Lasciamo il centro e andiamo verso il mercato principale della città. Qui finalmente abbiamo la sensazione di essere in uno dei luoghi più veri di Cusco. Troviamo di tutto: coloratissime bancarelle piene di frutta, macellai, venditori di ortaggi e di tessuti. Un mormorio confuso e colorato che regala a Ugo una collezione di volti e di immagini bellissime, e che lui non si lascia sfuggire. Quando mi fa vedere i suoi scatti di oggi mi lascia un misto di sorpresa e ammirazione perché riesce a indicare qualcosa che io, a pochi metri da lui, mi ero lasciato sfuggire. Ha la capacità di essere sempre “laterale”, e un gusto nella composizione dell’immagine che quasi mi aiuta a capire meglio i luoghi che visitiamo.



La nostra visita a Cusco finisce presto. Nel pomeriggio noi “creativi” ed Ermes lasceremo la città per visitare Machu Picchu, una delle meraviglie del mondo. Quasi non mi sembra vero.

qui il video della giornata del nostro Luca


Daniele Tagliavia




Nazca-Chaluhanca-Cusco: le Ande


Per Ugo, Luca ed Ermes la giornata inizia presto. Alle 8 sono già all’aeroporto di Nazca, proprio accanto al nostro albergo per sorvolare le famigerate linee. L’aereo li porta su tutto l’altopiano, ornato da queste figure gigantesche e perfette nelle proporzioni. In buona parte ancora un mistero.
Stavolta però è inutile che sia io a raccontare. Lascio la “parola” a Luca.



Lasciamo Nazca e le Ande non si fanno attendere. Appena usciti dal centro abitato la strada inizia a salire, vertiginosamente. Dopo circa un’ora siamo già a 2500 metri sul livello del mare. Dopo due ore superiamo i 4mila, e a circa metà tappa l’altimetro del nostro navigatore segna 4545 metri. Ci siamo tutti adeguatamente preparati allo sbalzo altimetrico, ma un’ascesa così veloce si fa sentire sulle gambe, sul fiato e sulla testa. Dà un senso di torpore difficile da descrivere. L’ascesa (per fortuna) finisce. La strada si fa orizzontale e finiscono i tornanti. Stavolta l’arido rossastro della salita cede il passo a prati fioriti, pascoli, e piccoli laghetti immersi in una nebbiolina surreale. La sensazione è di essere sospesi. La consapevolezza di essere così in alto dà una vertigine singolare. È tutto diverso da quello che abbiamo visto sino a ora, sembra quasi un altro Perù: sembra quasi che quell’ascesa fosse stata messa lì apposta, così ripida e arida, per marcare una differenza. A me viene in mente il destino di chi naviga e approda su un’isola lontana da tutto. L’ascesa veloce, solitaria, ripida, desolata e a tratti pericolosa è il nostro mare, gli altipiani verdi e sterminati il nostro approdo. Facciamo in tempo ad abituarci allo splendido abbandono di queste zone ed eccoci a Puquio, dove ci fermiamo per il pranzo.
Ripartiamo e l’altimetro (per fortuna) inizia a scendere. Mille metri più in giù ci ritroviamo dentro un canyon solcato da un fiume che la strada segue fedelmente fino a portarci a Chaluhanca. Dopo 8 ore di ascese, discese e tornanti possiamo finalmente riposarci: la ninna nanna ce la suona il fiume Huanca, che non vediamo ma che deve essere molto vicino e che si fa molto sentire.



Oggi riprendiamo il cammino verso Cusco. Il paesaggio cambia ancora. Sembra di essere tra le Alpi: fiumi, ruscelli e la strada che corre lungo il fiume Huanca per decine di chilometri. Qui le Ande sono generose con l’uomo: campi rigogliosi, terreni coltivati e terrazzamenti. Incontriamo lama, tori, galline, maiali, capre. Qualche volta sonnecchiano sui prati, altre pascolano svogliatamente proprio in mezzo alla carreggiata, incuranti del nostro passaggio. Qui i padroni di casa sono loro.
A poco a poco però la mia attenzione si distoglie dallo spettacolo della natura per dedicarsi allo spettacolo dell’uomo. I volti andini sono affascinanti: scuri, solcati da rughe che sembrano scavate nel legno, gli occhi a mandorla. E poi i colori: per un curioso gioco qui i colori non ornano più le case, le auto e gli autobus. Li hanno abbandonati e ora fanno mostra di sé sugli abiti delle persone. Piccole figure che abitano il ciglio della strada con i loro cappelli, le loro gonne e i loro maglioni coloratissimi. Sembrano incuranti della meraviglia che hanno intorno, quasi assenti. Calati nel tempo, lentissimo, dell’andatura dei muli a cui si affidano per i loro piccoli trasporti.
L’arrivo a Cusco, nel pomeriggio, toglie il fiato: improvvisamente si apre una valle completamente circondata da pendii su cui la città è distesa. Domattina ci concederemo un piccolo tour della città ma poi partiremo per Agua Calientes da dove il giorno dopo partiremo diretti a Macchiu Picchiu. Nel cuore delle Ande, nel cuore della civiltà Inca.



Daniele Tagliavia





16 febbraio 2011

Lima-Nazca. Antipasto andino


Lima è una città incredibilmente grande. Troppo per non lasciare un senso di spaesamento e confusione. Dal distretto Ventanilla, che ospita la Sagrada Familia, al nostro albergo, nel distretto di Miraflores, percorriamo circa 50 chilometri in mezzo a un traffico caotico. La città è organizzata in distretti: vere e proprie città nella città distanti anche alcuni chilometri l’una dall’altra e diversissime tra loro. A Ventanilla strade sterrate, casette di un piano costruite sul nulla e tantissima povertà. A Miraflores ville, centri commerciali e alberghi di lusso. Niente da invidiare a un quartiere residenziale di Los Angeles o di Miami. Ed è così che ieri sera ci ritroviamo, in mezzo a turisti da mezzo mondo, in un lungo mare scintillante. Appena dodici ore prima eravamo tra bambini poverissimi, la cui unica fortuna è stata quella di avere incontrato Hermano Miguel sulla propria strada.
Stamattina siamo usciti dalla città seguendo il lungo mare che da Miraflores porta verso la panamericana. Una sottile nebbiolina, che qui chiamano “garua”, nega solo parzialmente la vista dei costoni di roccia che sotto l’autostrada scendono ripidi verso il mare. Il rumore dell’oceano vince, almeno a quest’ora della mattina, sul traffico della capitale peruviana.
Il suo arrivederci, il pacifico ce lo dà a Paracas, un piccolo borghetto dove ci fermiamo per il pranzo. Poche case adagiate attorno a una piccola spiaggia. L’atmosfera è quasi mediterranea, per me familiare: un piccolo lungomare di legno, tavolini all’aperto, turisti e persone del posto che si godono la spiaggia e l’oceano. Il mare sembra dare sollievo e respiro alle vite, non facili, di chi vive da queste parti.



Mentre proseguiamo verso sud il paesaggio torna desertico, come quello che ci ha accompagnato in questi giorni. Quando manca ormai poco alla nostra destinazione di oggi arriva l’ultimo brivido della giornata: le Ande. In prossimità di Nazca la strada sale e diventa un serpente d’asfalto che si insinua tra la terra arida e rossastra. Alcuni scorci sono splendidi. È soltanto l’assaggio di quello che ci aspetta domattina. Prima Luca e Ugo saliranno su un piccolo aereo per immortalare l’altopiano di Nazca e le misteriose linee, poi ci metteremo in cammino verso Puquio prima e Chaluhanca poi.
A 4 mila metri sul livello del mare. Sulle Ande.

Qui il video della tappa.



Daniele Tagliavia



15 febbraio 2011

Lima: Partesa On The Road 20° nella comunità della Sagrada Familia


«Era il 1988. Avevo trent’anni e una vita normale. Uno dei miei 3 figli morì a soli sei mesi per una malattia congenita al cuore». Inizia così il racconto di Miguel Rodriguez Candia, il fondatore della Sagrada Familia. La piccola festa che hanno organizzato in occasione della nostra visita è appena finita. Lo stanzone, fino a un attimo prima riempito dalle voci dei bambini e dalla musica dell’orchestra del centro, è improvvisamente silenzioso e io chiedo a “hermano Miguel” – come lo chiamano da queste parti - qualche minuto per raccontarmi la sua storia. «Appena uscito dall’ospedale in cui era morto mio figlio – prosegue il suo racconto – mi sono imbattuto in un bambino di strada che aveva bisogno di cure ma non aveva i soldi per pagare. L’ho visto morire e quella stessa notte ho portato lui e mio figlio al cimitero per seppellirli. Uno accanto all’altro». Siamo seduti vicini ma il suo sguardo non riesco quasi mai a incrociarlo. È puntato chissà dove, insieme sognante e smarrito, nel ricordare il dramma che nel giro di poche ore lo ha convinto a dedicare la vita ai “niños” di strada. «In quel momento ho deciso – adesso mi guarda negli occhi - che era iniziata una guerra. Una guerra per salvare questi bambini».



(Morena Zucchelli e Hermano Miguel)


La guerra di Miguel inizia lasciando il lavoro il giorno dopo la morte del figlio e andando per strada, in mezzo ai “niños de la calle”. «Una sera ho dato da mangiare a quattro di loro e li ho ospitati per la notte. Il giorno dopo hanno portato altri bambini a casa mia ed è cosi che tutto è cominciato. Un mese dopo ho venduto tutto e sono venuto a stare qui, su questo terreno, all’epoca di proprietà di un sacerdote italiano».
Oggi nel centro, dopo 22 anni di attività, i bambini ospitati sono 800, dai 3 mesi ai 17 anni di età. Alcuni sono orfani, quasi tutti vengono da famiglie poverissime che non sono in grado di garantirgli una vita dignitosa. Ci accoglie Morena Zucchelli, responsabile di Coopi Perù che con progetti di adozione a distanza sostiene le attività della Sagrada Familia. Il centro è su una piccola altura che domina il quartiere di Zapallal, all’interno del distretto di Ventanilla. Prima di pranzo ci conducono per una breve visita del centro. Loro, i bambini, ci girano intorno, sono incuriositi dai nostri mezzi e dalla nostra presenza. La sorpresa più bella l’abbiamo entrando nel “nido” della Sagrada Familia dove vivono i bambini più piccoli, alcuni neonati. Luca, che si era chinato per fare delle riprese, in un attimo è “assalito” da tre di loro. Sandro e Ignazio sono subito circondati e non riescono più a fare un passo. Io mi siedo accanto a una bambina e subito “accerchiano” anche me. Anche Corrado e Giulia, due cooperanti che lavorano qui a Lima per Coopi, non sfuggono a questo tsunami di affetto e voglia di contatto. È il momento per noi più bello della visita. Loro hanno tanta voglia di giocare, sono divertiti dalla telecamera e dalle nostre macchine fotografiche. Noi, inizialmente sorpresi e spiazzati, ci lasciamo coinvolgere e ci divertiamo con loro.
Morena Zucchelli ci racconta di quanto sia importante l’educazione nell’attività del centro. E Miguel, orgoglioso, ci racconta di alcuni ragazzi che sono passati da qui e che adesso sono laureati. Uno di loro è un medico, e adesso lavora nella clinica del centro.
Dopo il pranzo nella mensa della Sagrada Familia è il momento della consegna solidale ai bambini del centro. È Il motivo per cui siamo venuti fin qui: portare il sostegno di Partesa a questa piccola comunità. Miguel ci mostra la clinica Alegria-Madre Coraje: infermeria, medicina generale, odontoiatria, ostetrica e assistenza diagnostica attraverso un centro di ecografia e di radiografia odontoiatrica. Presto anche un reparto di pediatria e una sala degenze al secondo piano, attualmente in fase di ristrutturazione.
La visita alla clinica chiude la nostra giornata qui alla Sagrada Familia. Per noi è tempo di andare ma prima chiedo a Miguel cosa vede nel futuro suo, e di quello del suo centro. «Vorrei un futuro in cui tutti siamo uguali. Un futuro in cui questo centro diventi un grande museo, un monumento».

A cosa?

«A quello che non sarebbe mai dovuto esistere».






Daniele Tagliavia



14 febbraio 2011

Chiclayo-Casma. Le rovine di Chan Chan e ancora deserto


Lasciamo Chiclayo come sempre di buon mattino. Il nostro “menu” del giorno prevede 400 chilometri fino alla cittadina di Casma, dove faremo uno “scalo tecnico” per arrivare a Lima domattina. Dal sedile posteriore del massif ascolto Sandro e Ugo che chiacchierano raccontandosi avventure in giro per il mondo. E mentre dal finestrino mi godo il film delle cittadine peruviane sdraiate ai lati della panamericana, i loro racconti portano dentro il fuoristrada le repubbliche centroamericane e i viali del Cairo, il deserto cileno di Atacama e le guerre civili in El Salvador, le dune del deserto libico e le città coloniali del Guatemala.
La mattina scorre via pigra. Siamo diretti a sud in direzione Trujillo, dove Sandro ha organizzato per noi la visita alle rovine di Chan Chan. Si tratta di una città preincaica, ed è anche il nostro primo approccio con un sito archeologico precolombiano. La città è composta da dieci cittadelle che ospitavano templi e residenze. Attorno mura di argilla altissime, tutte curiosamente limate dal vento, che le rende curve e sinuose.

Dopo il pranzo ci rimettiamo in cammino verso Casma. E negli ultimi chilometri che ci separano dalla nostra meta di oggi fanno nuovamente capolino i paesaggi desertici. Molto diversi rispetto al Sechura, privo di qualsiasi punto di riferimento e con una lingua d’asfalto drittissima a fendere una pianura sterminata. Qui invece la panamericana supera colline e offre saliscendi, tornanti e cambi repentini di paesaggio. Da passi stretti a pianure a perdita d’occhio. Sembra un paesaggio lunare. Quando ci imbattiamo in alcune dune molto alte di sabbia finissima non mi faccio scappare l’occasione di avvicinarmi e di salirci sopra: la sabbia è calda e più compatta di quanto mi aspettassi. Non si fa troppa fatica a “scalarla” anche se quasi mi dispiace violare con le mie orme la superficie liscissima levigata dal vento in chissà quanti anni di lavoro certosino.
Proseguendo verso sud si avverte che la panamericana ci sta portando lontano dall’equatore. Si avverte nell’aria, più secca e calda e si avverte nei colori, più accesi e definiti rispetto al grigiore livido dei cieli ecuadoriani.
Il nostro albergo è appena fuori dalla cittadina di Casma. Domani sarà una giornata importante: all’alba partiremo per raggiungere Lima, dove ci aspettano i bambini del centro Sagrada Familia.


Daniele Tagliavia





13 febbraio 2011

Tumbes-Chiclayo: l'oceano e il deserto nostri compagni di viaggio


L’oceano.
Usciamo da Tumbes molto presto la mattina e imbocchiamo la Panamericana norte in direzione sud. Dopo pochi chilometri alla nostra destra, l'oceano. Bellissimo.
La panamericana più volte sembra volercene privare portandoci verso l’interno, ma poi ce lo ritroviamo di nuovo accanto. E d’altronde non è necessario vederlo per sentirne la presenza: il suo profumo e la sua brezza arrivano anche quando la strada lo nega alla vista. E poi il mare ha una prerogativa affascinante: parla ai luoghi costieri su cui si affaccia con un messaggio impalpabile ma efficace, che influenza il modo in cui l’umanità organizza i propri spazi e i propri ritmi al suo cospetto. E la costa pacifica del Perù non sembra sfuggire a questa sorta di universale culturale.



Ugo vuole fare qualche foto in prossimità di un molo circondato da barche di pescatori e per me la sosta è un bellissimo regalo. L’oceano brontola qualche onda non troppo alta, mentre alcuni pescatori con secchi e canne da pesca spariscono in lontananza sulla enorme battigia costellata di barconi di legno abbandonati. Ripartiamo e proseguiamo costeggiando l’oceano fino a Mancora, una piccola cittadina che sembra una enclave occidentale nel poverissimo Perù settentrionale: i surfisti che la animano sono il nostro commiato dall’oceano. Tornerà a farci compagnia nei prossimi giorni, almeno fino a Lima, prima di arrampicarci sulle Ande peruviane.


Il deserto.
Dopo una breve sosta a Sullana dove pranziamo e facciamo rifornimento, ripartiamo verso Chiclayo. Tra noi e la nostra destinazione ci sono duecento chilometri attraverso il deserto del Sechura.
“L’ingresso” nel deserto è graduale: per i primi chilometri capita di incontrare piccole comunità che vivono lungo la strada: capannelli di poche case, la maggior parte costruite con l’argilla, alcune con un tetto di foglie, altre senza porte o finestre.
Gradualmente l’elemento umano sparisce e resta il deserto: una pista d’asfalto con ai lati sabbia e cespugli. Il Sechura è un deserto stepposto: la sabbia non è troppo sottile ed è piena di rovi e cespugli, in alcuni punti si scorge anche qualche albero.



La totale assenza di punti di riferimento sa essere inquietante, anche perché il sole è coperto da uno strado uniforme di nuvole e neanche il sole mi conforta nella ricerca di punti di riferimento. In più la strada non ha pietre miliari, ma a dettarne macabramente il ritmo è una serie lunghissima di piccoli altari: uno per ogni vittima della strada. Nella parte più meridionale del deserto il verde sparisce del tutto e ci imbattiamo anche in qualche duna di sabbia finissima mentre all’estremità meridionale ricominciamo a vedere qualche baracca che ci introduce a Chiclayo, la nostra meta di oggi.



Daniele Tagliavia





12 febbraio 2011

Da Guayaquil a Tumbes. Partesa On The Road 20° arriva in Perù


Si parte.

Sono piú o meno le 12 quando lasciamo l’albergo di Guayaquil e finalmente saliamo sui nostri mezzi. Basta il rumore dei motori per metterci di buon umore: ci ricorda perché siamo qui, e ci mette una gran voglia di viaggiare.
Attraversiamo tutta la città verso sud e imbocchiamo la strada che porta a Machala. Lungo la carretera pochissima segnaletica, venditori di cocco e mango, mille tonalità di verde, e piantagioni sterminate: cacao, mango, canna da zucchero ma soprattutto banane. A perdita d’occhio. Neanche sulle colline c’è un centimetro quadrato di terra che non sia conteso dalle più diverse specie di flora tropicale.



L’infinito mare verde che vediamo ai lati della strada è interrotto soltanto da microscopici centri urbani che improvvisamente ci troviamo ad attraversare. Alcuni sono poco più che improvvisate stazioni di servizio per viaggiatori animate da venditori ambulanti, ristoratori e parcheggi abbandonati. Le abitazioni rifinite sono poche e la gente vive quasi tutta in baracche: alcune sono quasi distrutte, altre hanno una facciata “buona” che si affaccia sulla strada mentre qualcuna, chissà perché, ostenta una porta d’ingresso nuovissima e scintillante incastrata in un edificio senza intonaco e semidistrutto. L’effetto è straniante: sembra quasi uno scatto d’orgoglio dei loro proprietari, un punto esclamativo di dignità nella povertà di una baracca che sta in piedi per miracolo.
I primi chilometri sono anche l’occasione per "testare" gli ingranaggi del nostro gruppo: tutti iniziamo a fare l’abitudine alla telecamera di Luca, che spesso ci spia durante gli spostamenti o nelle soste alle stazioni di servizio. Lui e Ugo si scambiano spesso i posti tra l’Eurocargo e il Massif, a caccia della visuale migliore per fotografare o riprendere. La mia “tana” invece è il sedile posteriore del Massif: osservo, prendo qualche appunto e quando serve do una mano a Sandro con le mappe e con la radiotrasmittente che usiamo per comunicare con l’altra metà del gruppo, sul camion dietro di noi.
Alla dogana Ecuador-Perù arriviamo al tramonto. A Tumbes, la nostra destinazione di oggi, che ormai è buio; troppo tardi per un giro in città. Faccio soltanto in tempo a notare il brulicare incessante e confuso dei risciò a motore che fanno assomigliare questa piccola città peruviana a un formicaio. Non abbiamo tempo per vedere di più, domattina presto sarà già tempo di proseguire verso sud, verso Chiclayo. Da Ushuaia ci separano circa 13 mila chilometri e i trecento percorsi oggi ci hanno fatto venire voglia di goderceli tutti.

Daniele Tagliavia




11 febbraio 2011

Terzo giorno di viaggio. A spasso per il Barrio Las Peñas


I taxi delle grandi città che non conosco mi hanno sempre affascinato. Ho sempre pensato che fossero una delle chiavi di lettura migliori per capirle. I tassisti, a volte taciturni, altre socievoli o sfacciati, raccolgono la memoria dei centri urbani in migliaia di piccoli frammenti, lunghi quanto una corsa. Questi poi diventano storie, racconti e invenzioni a beneficio di altri clienti, durante altre corse. Animano altri incontri, alimentano altre storie.
In certi casi però sono loro stessi il racconto, e la chiave di lettura di un luogo te la offrono anche senza volerlo. A noi Guayaquil ce la racconta Salvador, il tassista che nel pomeriggio ci porta al barrio Las Peñas. La cosa di cui mi accorgo quasi subito e che più mi colpisce di Salvador è la svastica tatuata sulla sua mano sinistra. Mi sembra che ne abbia pudore: sul volante tiene sempre la mano destra, la sinistra è nascosta. Ma forse è solo la mia immaginazione. Gli chiediamo di aspettarci ai piedi della collina mentre noi visitiamo il quartiere, ma una volta arrivati lì decide di salire con noi: sarà la nostra guida.


A dispetto dell’impressione che avevamo avuto ieri guardandolo da sotto, il quartiere è molto curato e non sembra pericoloso. Anche qui, come al Malecón, c’è stata un’azzeccata opera di regeneratión urbana che ha reso la scalinata, spina dorsale del barrio, un susseguirsi di bar, ristoranti e negozi. Piccole terrazze, minuscole piazzette e orticelli privati impreziosicono i 444 gradini della salita che porta al mirador, dal quale si domina tutta la città e la sterminata foce del fiume Guayas. Lungo la scalinata scopro che Salvador è originario di Riobamba, la capitale della provincia Ecuadoriana di Chimborazo, duecento chilometri a nordest di Guayaquil. Si era trasferito qui non ancora ventenne per diventare un ingegnere chimico ma poi le cose sono andate diversamente. Per arrivare alla laurea gli manca soltanto la “defensa della tesis” ma per vivere fa il tassista. Quando gli dico che potrebbe cambiare vita lui sorride, ma negli occhi ha il rimpianto di non essere arrivato alla fine degli studi e la consapevolezza che forse non ci riuscirà mai. É sveglio, Salvador. Sembra felice di svelare a noi occidentali questo angolo suggestivo della sua città d’adozione. Passiamo insieme più di un’ora e mentre mi descrive le varie zone della città continuo a chiedermi il perché di quella svastica. Tra di noi fanno presto a decollare ardite congetture, ipotesi strampalate e sospetti.

Trovo il coraggio di chiedergli il perché della svastica soltanto una volta tornati in albergo, dopo avere pagato la corsa. «Questo tatuaggio l’ho fatto quando avevo 9 anni – mi dice visibilmente imbarazzato e sorpreso dalla domanda – mi piaceva soltanto graficamente, ma non ne conoscevo il significato». Dopo i saluti Salvador va via sorridente, mentre a noi quasi dispiace che dietro quel tatuaggio non ci sia chissà quale storia avvincente.
Si è fatta sera. La mia giornata finisce a guardare fuori dalla finestra, mentre Sandro e Ignazio sistemano il Massif e l’Eurocargo nel parcheggio dell’albergo. Domani partiamo. E per un bel po’ faremo a meno dei taxi.


Daniele Tagliavia






10 febbraio 2011

Per le strade di Guayaquil: dal Malecón alla collina di Santa Ana

La nostra seconda giornata in Ecuador parte di buon mattino. La notte ci ha tolto la stanchezza del viaggio e le scorie del jet lag. Luca, il nostro videomaker e Ugo, il nostro fotografo, hanno voglia di andare in giro a raccogliere immagini e suggestioni. A dispetto di un’atmosfera vivace e colorata, questa è una città con un tasso di criminalità altissimo e in albergo ci raccomandano di non addentrarci verso ovest, lontano dalla riva del fiume, ma di restare nella zona vicina al Malecón, sulla riva del Guayas. In strada solito caos e soliti clacson. Al rumore delle auto si aggiunge però uno sfondo insolito: i fischi. Per strada fischiano tutti: i vigili per regolare il traffico, i venditori ambulanti, i tassisti e i lustrascarpe per attirare clienti. I mendicanti nella speranza di qualche offerta. Il fischiare continuo ci abbandona soltanto una volta arrivati al Malecón, in riva al fiume. Il letto del Guayas in questo punto è enorme, a stento si vede la sponda opposta. L’acqua fluisce lenta mentre barconi carichi di merce, o piccole barchette private, lo attraversano pigramente .
Il Malecón, oggetto di una imponente opera di regeneración urbana completata nel 2001, ospita un museo antropologico e di arte contemporanea, alcuni bar, ristoranti, e uno splendido giardino tropicale. Lo percorriamo tutto e ci ritroviamo ai piedi di una collinetta che quasi ci sorprende, e che ci ricorda che la realtà della città é diversa da quella, più occidentale e ricca, che abbiamo trovato nei dintorni dell’albergo. Decine di case con le facciate color pastello formano un tappeto omogeneo, interrotto soltanto dalle molte antenne che svettano sulla punta della collina. Le case sono schiacciate una sull’altra, sembrano ammassate. Senza strade a dividerle o giardini a dare loro respiro.




Si tratta della collina di Santa Ana, su cui è arrampicato il barrio di Las Peñas, primo nucleo urbano di Guayaquil. Una ragazza Guayaquile
ña, incuriosita dal nostro accento, ci chiede da dove veniamo e cosa facciamo lì. Ne approfittiamo per farci raccontare qualcosa di più sul quartiere. «Las Peñas – ci racconta – è il nucleo originario di Guayaquil. Sulla collina sono nate le prime case, poi da lì la città si è allargata lungo il fiume. Negli ultimi decenni moltissima gente si è spostata qui dalle campagne circostanti. Quito rimane la capitale culturale e politica dell'Ecuador ma il cuore economico del paese è qui».

Finiamo il nostro piccolo tour mattutino al ristorante tipico La Canoa, nella piazza dominata dalla Cattedrale di Nostra Signora della Mercede: dal cheviche de Camarrones al caldo de gallina, dal churrasco criollo ai platanos fritti, il ristorante ci offre una piccola enciclopedia della cucina locale.

Nel pomeriggio Sandro ci lascia per andare al porto, dove il Massif e l’Eurocargo vengono ispezionati dai doganieri Ecuadoriani. Al suo ritorno la notizia che aspettavamo: domani mattina all’alba si torna al porto per le ultime firme e per il ritiro dei mezzi: la nostra “casa” per i prossimi due mesi.


Daniele Tagliavia


9 febbraio 2011

Guayaquil: l'avventura sudamericana di Partesa On The Road 20° inizia da qui


La prima impressione che ci regala il “nuovo mondo”, appena usciti dall’aerostazione di Guayaquil, è tutta fisica: tanto caldo, ma soprattutto tanta umidità. Il primo impatto é quasi soffocante per noi che abbiamo addosso felpe, sciarpe e giacche ma soprattutto 18 lunghissime ore di volo. Usciti dall’aeroporto ci avventuriamo nel traffico cittadino diretti all’albergo. È mattina presto, le strade sono piene, e Guayaquil si presenta subito come una città viva, quasi caotica: taxi e auto si affollano sulle strade in un flusso disordinato ma soprattutto rumoroso. Lo sport nazionale è il suono indiscriminato del clacson. I veri padroni del traffico sono gli autobus, coloratissimi e sempre pieni, che sfrecciano con porte e finestrini aperti per sopperire alla mancanza dell’aria condizionata.



(Cattedrale di Nostra Signora della Mercede)


Costeggiamo il fiume Guayas, sulle cui rive la città è cresciuta a dismisura negli ultimi anni. Oggi è la capitale economica dell'Ecuador, una metropoli con più di 3 milioni di abitanti che ogni mattina attrae migliaia di pendolari dalle zone circostanti. La cosa che mi colpisce di più sono le case ai lati delle strade. Nonostante il caos che domina sulle carreggiate, gli abitanti che vivono lì intorno sembrano essere dentro un altro ritmo, nelle loro villette di uno o due piani ammassate l’una sull’altra, ma con tantissimo verde intorno. Ci bastano pochi minuti e siamo in hotel, nella zona più centrale della città: via il verde, via le villette. Restano il traffico e l’uso indiscriminato dei clacson.
Per Sandro, il nostro capospedizione, e per Ignazio, autista dell’Eurocargo, inizia l’odissea delle pratiche doganali, mentre a me, Ugo, Luca ed Ermes non resta che fare un giro nei dintorni dell’albergo. In zona troviamo la Cattedrale di Nostra Signora della Mercede (in foto), il monumento all’incontro tra i libertadores Simon Bolívar e José de San Martín e il Malecon: un paseo di tre chilometri disteso lungo una riva est del fiume Guayas.
Della Guayaquil “per turisti” resta poco altro e così la nostra prima giornata sudamericana scivola veloce. Non ci resta che aspettare il ritiro dei mezzi, probabilmente domani. Venerdì sarà tempo di iniziare a muoverci verso sudest, diretti in Perù. Finalmente on the Road.



Daniele Tagliavia





3 febbraio 2011

Ancora pochi giorni alla partenza. Ecco il calendario di Partesa On The Road 20°

Tutto è pronto per l’inizio dell’avventura sudamericana di Partesa On The Road 20°: il 7 febbraio partiremo dall’Europa diretti a Guayaquil, in Ecuador. Lì aspetteremo i nostri automezzi che attualmente stanno attraversando l'Oceano a bordo della Duncan Island, la nave cargo partita da Anversa lo scorso 26 gennaio che arriverà a destinazione il 9 febbraio.





Completate le pratiche doganali sarà tempo di muoverci verso sud-ovest, diretti in Perù. È lì che resteremo per circa dieci giorni, fino al 21 Febbraio: attraverseremo tutto il paese da nord a sud lungo la superstrada che costeggia l’Oceano Pacifico. Nella capitale Lima, dove faremo tappa il 13 febbraio, visiteremo il centro Sagrada Familia e la clinica Alegria-madre coraje di Coopi che Partesa ha deciso di sostenere.
Giunti a Nazca abbandoneremo l’Oceano per dirigerci a est: Puquio prima, Cuzco poi. Visiteremo le linee di Nazca, l'insediamento Inca di Macchiu Picchiu per poi affrontare il passo La Raya-Ayaviri (4372 metri sul livello del mare) ed entrare così in Bolivia. Prima tappa boliviana la capitale La Paz, poi sarà la volta di Potosì e di La Quiaca da dove partirà la nostra avventura più lunga, quella sulla Ruta 40. Tra le ande al confine tra Bolivia e Argentina, valicheremo il passo di Abra del Acay, a 4900 metri sul livello del mare; proseguiremo poi verso sud fino a Mendoza, quando sarà il momento di abbandonare la Ruta 40 e andare ad est verso Buenos Aires dove prevediamo di fare tappa il 7 Marzo. Nella capitale argentina visiteremo la sede della Fondazione PUPI, la Onlus voluta da Javier e Paula Zanetti che ha dato vita al progetto “Lo sport ci rende uguali” sostenuto da Partesa. A Buenos Aires brinderemo con Birra Moretti durante il pranzo al ristorante Cucina Paradiso, dove saremo ospiti dello chef italiano Donato De Santis.
L’ultima parte del nostro viaggio ci porterà di nuovo sulla Ruta 40, di nuovo diretti a sud. Attraverseremo tutta la Patagonia orientale per arrivare, il 21 marzo, al ghiacciaio del Perito Moreno.
Qui i venditori Partesa vincitori della gara “Mission Partesa On The Road 20°” si uniranno a noi per le ultime tappe del viaggio. Con loro percorreremo gli ultimi chilometri che ci separano dalla nostra destinazione finale: Ushuaia, la “fin del mundo”. È lì che festeggeremo tutti insieme, il 25 marzo, la Grande Consegna di Birra Moretti.



Daniele Tagliavia




1 febbraio 2011

Partesa On The Road 20° a fianco della fondazione PUPI. Il racconto di Javier Zanetti


Javier Zanetti non ha bisogno di presentazioni. Da anni capitano e bandiera dell’Inter, in campo è uno dei migliori difensori di fascia che abbia mai giocato in Italia, esempio di professionalità, correttezza e lealtà. Fuori dal campo è un uomo sensibile, stimato da compagni e avversari, che lontano dalla ribalta ha deciso di dare una mano ai bambini del suo paese d’origine, l’Argentina. È cosi che insieme alla moglie Paula Zanetti ha dato vita nel 2001 a “PUPI”, una fondazione che si occupa di aiutare i bambini della periferia di Buenos Aires.


Una mission che Partesa ha deciso di sposare sostenendo “Lo sport ci rende uguali”, un progetto che vede nello sport, in particolare nel calcio uno strumento utile a favorire l'integrazione e l'aggregazione delle persone, in particolare per i bambini e adolescenti. «Io e mia moglie Paula – ci racconta il capitano dell’Inter – cullavamo l’idea da molti anni. Nel 2001, con la crisi durissima che ha colpito l’Argentina abbiamo deciso di farlo per davvero. Abbiamo preso a esempio I Bindum, di Giuseppe Bergomi e Franco Baresi, e la fondazione Gol de Lettra di Leonardo. L’idea era di creare uno spazio dove i bambini meno fortunati avessero le stesse opportunità di andare avanti e crearsi un futuro migliore».
Ormai siete attivi da 10 anni, com'è cresciuta la Fondazione in questo periodo?
«La Fondazione per fortuna cresce continuamente. Il nostro impegno di conseguenza è continuo. Abbiamo iniziato nel 2001 aiutando 23 bambini, oggi sono più di mille e abbiamo più di 15 progetti attivi».
Riuscite ad andare avanti soltanto con le vostre forze o ci sono delle istituzioni che vi appoggiano?
«In tutti questi anni di attività abbiamo creato molte alleanze che ci hanno permesso di realizzare i nostri progetti. Senza il coinvolgimento delle istituzioni il mondo della Fondazione non sarebbe possibile e forse non avrebbe neanche senso».
Ci sono stati momenti di crisi della fondazione?
«Diciamo che non ci sono momenti in cui ci si può rilassare. Mi domando sempre cosa fare per sostenere l'intero impegno, si fa molta fatica ma alla fine riusciamo sempre ad andare avanti».
Progetti per l’immediato futuro?
«Oggi stiamo costruendo una nuova sede che ci permetterà di ottimizzare le nostre proposte. Più di mille persone favoriscono e partecipano attivamente ai nostri progetti e verso di loro dobbiamo fare il massimo possibile, questo è l'impegno che ci si poniamo ogni giorno».
Alla fine della carriera da calciatore cosa cambierà nell'impegno verso la fondazione?
È tutto da vedere. Per adesso penso ai piani futuri per la Fondazione e mi impegno a portarlo avanti. I nostri progetti non si esauriscono quindi ci sarà sempre da fare!


Daniele Tagliavia